Prigionieri dell’odio di Andrea Ribezzi – La recensione
Stefano Codiglia, un cinquantenne divorziato, in una mite giornata d’autunno del 2015, si concede un bagno fuori stagione. Siamo a Trieste. Stefano parcheggia al bivio di Miramare dove è ancora presente una pietra miliare che indica la distanza con Berlino. Per quella strada nel 1945 passarono i mezzi dei neozelandesi (vedi la foto di copertina del romanzo) in quella che fu definita in seguito la “corsa per Trieste”.
Fatti che riguardano un passato lontano che però spesso riaffiorano inaspettati così come inaspettato e casuale è l’incontro di Stefano con un uomo che lo porterà a rivivere proprio quei momenti così lontani nel tempo ma ancora vicini nella memoria. Aldo Traverso è il nome di quest’uomo, un anziano con una sorprendente rassomiglianza con il comico genovese Gilberto Govi, alla ricerca dei luoghi che suo padre, Antonio Traverso, capitano di fregata della Regia Marina, ha attraversato a partire dal 30 novembre del 1944 quando giunse a Trieste. La figura ambigua di Antonio Traverso, in realtà uomo dei servizi segreti alleati, raccontata con dovizia di particolari dal figlio ad un sempre più intrigato Stefano, porta i due ad affrontare un viaggio per le strade di Trieste alla ricerca di qualche segnale che sveli i misteri legati alla sua vicenda. Ed è questo il pretesto narrativo creato dall’autore per accompagnare il lettore a una scoperta di vie, edifici e zone di Trieste legate all’ultimo anno di guerra e a quelli non meno drammatici che li seguirono.
E non è nemmeno del tutto chiara la vita di Traverso figlio che si fa accompagnare da un’avvenente donna, di molti anni più giovane di lui, e che sembra esser legata all’uomo solo per i suoi soldi. Una donna che non lascia indifferenti e Stefano se ne accorgerà ben presto. L’incontro con Aldo Traverso sarà anche l’occasione per Stefano per ristudiare quel periodo storico così complesso cercando, al di là delle strumentalizzazioni politiche odierne, se non proprio di capire, almeno di avvicinarsi alla realtà. In questo modo Ribezzi si addentra in argomenti delicati, come quello delle foibe che ha diviso e che continua a dividere tutt’ora. Lo scrittore triestino lo affronta lasciando da parte sia faziosità, sia lezioni di storia a buon mercato, ma ce lo racconta attraverso gli occhi del suo protagonista mantenendo vivo lo spirito del libro, cioè quello di essere un romanzo che alla finzione narrativa affianca un’onesta analisi storica. Per questo motivo risulta più che mai azzeccata la citazione che fa ad un certo punto tratta da una canzone di Giorgio Gaber: “No, non fa male credere, fa molto male credere male”.
Nella seconda parte del libro, uno Stefano ormai svincolato dalla presenza di Aldo Traverso e dal suo lungo racconto si muove da solo perché capisce che il suo scopo deve essere quello di: “non credere male”. E’ uno Stefano diverso, quasi fosse maturato in quei pochi giorni in cui si svolge la vicenda e che si trova davanti ai fatti del lungo dopoguerra vissuto da Trieste, contesa terra di nessuno e di tutti, per quasi un decennio. Ma come spesso accade, nei romanzi di questo tipo, alle vicende storiche si intrecciano quelle private e Stefano si trova a scoprire, quasi inconsapevolmente, dei segreti che riguardano le persone che gli sono girate intorno in quei giorni frenetici.
Alla fine Stefano non avrà nessuna verità in mano, né storica né privata, ma il solo il fatto di aver tentato di saperne di più metterà ordine alla sua vita, ai suoi pensieri e alle sue preoccupazioni.
“Prigionieri dell’odio” è l’ultima fatica letteraria di Andrea Ribezzi, scrittore triestino di noir con la passione per la storia, che ha abbandonato (momentaneamente ?) le vicende dell’ispettore Ravera per affrontare un altro tipo di indagine, quella più prettamente storica di un cittadino qualunque come il protagonista del romanzo, quello Stefano Codiglia alter ego (forse) dell’autore e di tutti quelli che ne vogliono sapere di più. Perché capire il passato è necessario per vivere il presente.
Novembre 2016