Mehdi Huseynzade fu inoltre l’autore di due clamorosi attentati, paragonabili a quanto accadde, poco prima, in via Rasella a Roma. Il primo al cinema di Opicina e il secondo alla mensa ufficiali del Palazzo Rittmeyer di via Ghega a Trieste che all’epoca ospitava la Casa del Soldato Germanico (Deutsches Soldatenheim). In entrambi i casi indossava una divisa tedesca.
L’attentato al cinema, frequentato principalmente dai militari della vicina caserma di Banne, lo portò a termine con Mirdamat Seidov, il 2 aprile del 1944, facendo esplodere, alle dieci di sera, una mina inglese di cinque chili all’interno della sala durante la proiezione di un film. La documentazione ufficiale parlò sempre di sette vittime fra i soldati tedeschi ma il numero non può considerarsi certo. Molte di più secondo Mirdamat Seidov, intervistato negli anni seguenti, solo due secondo i Carabinieri i quali parlarono anche di una vittima civile italiana, una giovane donna estratta dalle macerie il giorno successivo.
Durante la notte furono arrestate ed interrogate una ventina di persone residenti a Opicina ma furono presto rilasciate, grazie al parroco del paese, ma contemporaneamente fu stilata una lista di settantadue detenuti del Coroneo di Trieste. I prigionieri, militanti antifascisti, partigiani italiani, sloveni e croati, all’alba del giorno seguente furono fucilati, presso il poligono di tiro di Opicina e i loro cadaveri lasciati esposti per tutto il giorno.
Tra di loro molti giovani di soli diciassette anni e una ragazza di venti. I loro corpi furono i primi ad essere bruciati nel forno crematorio della Risiera di San Sabba.
Le vittime furono in realtà settantuno perché un condannato a morte incredibilmente si salvò. Si chiamava Stevo Rodič. Era un ragazzo di vent’anni, originario di Drvar una cittadina dell’Erzegovina. Rimase vivo dopo la fucilazione e fu sepolto dai cadaveri dei suoi compagni. Rimanendo immobile per ore, nonostante una ferita alla gamba, riuscì a scappare con il favore del buio. Fu soccorso da una famiglia di Rupinpiccolo (frazione del comune di Sgonico in provincia di Trieste) e poi ricoverato nell’ospedale clandestino partigiano di Comeno (Komen, ora in Slovenia). Appena guarito tornò a combattere nelle fila della brigata Basoviška e prese parte alla liberazione di Trieste. Rischiò nuovamente di morire a causa di una guerra quando, l’8 maggio del 1999, la sua casa a Belgrado fu bombardata dagli americani che colpirono per errore la vicina ambasciata cinese. Ma ancora una volta ne uscì indenne. È morto il 15 luglio del 2016.
L’attentato di via Ghega avvenne il 22 aprile del 1944 nel palazzo Rittmeyer, nel cuore di Trieste a due passi da Piazza Oberdan, sede del comando delle SS. L’edificio era stato trasformato in un circolo destinato alla mensa per le truppe tedesche. Mirdamat Seidov inizialmente si attribuì anche questa seconda azione che invece fu compiuta da Mehdi Huseynzade con l’appoggio dell’austriaco soprannominato Fritz. L’esplosione avvenne alle 13.25 e danneggiò notevolmente l’edificio. La versione ufficiale tedesca parlò di cinque vittime fra i militari ma, come per il precedente attentato, questo numero non può essere dato per certo. Fra le vittime civili, una cuoca e una passante deceduta nei giorni seguenti a cause delle ferite riportate. Anche in questo caso la rappresaglia tedesca non si fece attendere. Nella notte fu stilata una lista di cinquantuno persone, sempre detenuti politici del carcere Coroneo di Trieste, che, all’alba della mattina dopo, furono trasportati sul luogo dell’attentato e barbaramente impiccati alle ringhiere delle scale e vicino alle finestre del palazzo Rittmeyer in modo da poter esser visti dalla strada. Il macabro rituale dell'esposizione dei corpi si ripeté anche in questo caso. Parecchie persone dichiararono di aver visto le vittime appese alle finestre e alcune di loro costrette con la forza a scendere dal tram che transitava per via Ghega. Molta stampa del dopoguerra scrisse che i cadaveri, sorvegliati dagli uomini della locale Guardia Civica, furono lasciati penzolare alla vista dei cittadini per ben cinque giorni e poi furono rimossi grazie all'intervento del Vescovo di Trieste, Monsignor Santin. Recenti ricerche sembrano però dare più credito alla versione secondo la quale il giorno dopo alla strage, alle ore 11:00, una cinquantina di cadaveri fu inumata in una fossa comune del cimitero di S.Anna. Tra le vittime, attivisti antifascisti italiani, sloveni e croati, nuovamente molti giovani e ben cinque donne. Anche in questo caso, come per la strage di Lipa e come ho già scritto in quest'articolo, furono fatte delle fotografie e anche in questo caso lo sviluppo fu affidato a dei privati. Il laboratorio Davanzo sviluppò e stampò le foto e anche in questo caso, nonostante fosse piantonato dai tedeschi, gli addetti riuscirono a trafugare alcune copie che poi riuscirono a far circolare segretamente ancora prima della liberazione. Laura Petracco, una delle cinque donne impiccate, fu riconosciuta già nell'estate del 1944. I tedeschi invece usarono queste foto a scopo intimidatorio. Furono mostrate casa per casa a Postumia (Postojna ora in Slovenia), da dove provenivano 15 delle 51 vittime, documentando così quale fosse la sorte a cui andava incontro chi si opponeva all'occupazione nazista.